BRUNO BRUNINI, “LENTO
RITORNO”: UNA MEDITAZIONE POETICA SUL PASSATO E IL RICORDO (di Matteo Fais su "Il detonatore" 6 aprile 2024) https://www.ildetonatore.it/2024/04/06/23601/
“Tra un
pomeriggio di marzo/ e la fine del ricordo,/ non consola l’ordine dei viali,/
il merlo che canta dalle foglie,/ un’eco senza origine/ che il dolore rende
perfetto” (Bruno Brunini, Lento ritorno, La vita felice).
Sapete chi è
a sostenere che in un secolo nascono massimo 3 gradi poeti? Di solito si tratta
di persone che hanno letto – o leggeranno – 3 poeti in cent’anni di vita,
quelli scovati nelle antologie scolastiche. L’unico motivo per cui una simile affermazione così
radicale fa breccia presso il grande pubblico è perché solleva l’ignorante
medio, nella sua inerzia, dall’andarsi a cercare le voci di valore. È un po’
come dire che l’amore non esiste: allora, tanto vale murarsi vivi e chiuderla
lì.
Naturalmente,
di autori che abbiano qualcosa da dire ne esistono. Sono pochi – specie in
Italia – e semi sconosciuti. Per scovarli bisogna stare sempre attenti alle
nuove uscite, in parte sperare in qualche imprevedibile incontro frutto della
sorte. Non esiste un metodo per arrivarci, a ogni modo. Ma, quando capita, li
si riconosce subito.
Bastano
poche pagine per capire se si è al cospetto di un vero poeta. Egli è onesto,
non parla poetichese, non si nasconde dietro ermetismi e narcisimi vari, non ha
paura delle emozioni, la sua scrittura suona consapevole ma non imposta – più che pensare a promuoversi su
Facebook e altri social media, vive attendendo il verso successivo.
Uno che
certamente corrisponde a questa descrizione è Bruno Brunini, napoletano
naturalizzato bolognese, che già aveva dato mirabile prova della propria
abilità in versi con Enclave, nel 2017, e che, nel 2021, è
tornato in libreria con Lento ritorno (La vita felice) –
manco a dirlo, essersene resi conto con tanto ritardo non può che essere motivo
di autocritica, ma per fortuna la poesia ci redime sempre grazie alla sua
tendenza a non invecchiare.
Delicatissima
meditazione sul ricordo quest’ultima fatica di Brunini. Meriterebbe, come esergo, le parole di
Cardarelli in Passato: “I ricordi, queste ombre troppo lunghe/ del
nostro breve corpo,/ questo strascico di morte/ che noi lasciamo vivendo”. Con
la differenza che la memoria con cui fa i conti l’autore di Lento ritorno
non ha quei tratti così lugubri e pesanti – a suo merito va anche il fatto di non
forzare il tono tragico verso il parossismo.
Ciò che il
testo sembra dire è che la memoria di cui siamo fatti è costante dialogo tra
l’esistere, l’esserci e il passato: “Noi adesso parliamo/ per ricordare/
giorni capiti dopo”. Vivere, insomma, è riviversi, ritrovarsi, non
solo cedere all’attimo, ma anche lasciarsi invadere e aprirsi a quel che è
stato: “La vita che era qui/ rivive/ nello spazio sconfinato/ della
polvere,/ scivola tra i vestiti, nella pelle./ Ciò che rimane/ è un quaderno/
che intorno da suono,/ principio della discesa/ per troppi nomi/ che recano
notizie,/ finiti nella cesta in basso,/ pronta/ per essere chiusa”.
Dunque, il
tempo cos’è realmente? Ha ragione Sant’Agostino nel dirsi smarrito di
fronte a questa entità così poco lineare la quale, ogni volta che sembra
inchiodarci al qui e ora, oscilla altrettanto facilmente tra proiezioni a
ritroso e improvvisi risvegli nell’immediato: “e il tempo si ferma/
confonde i ricordi./ Non più noi/ c’è un silenzio magico/ che parla,/ l’azzurro
aperto/ dissolto nell’infanzia/ per date, nomi,/ fino allo stridere/ di questa
finestra”.
Ma questo
scorrere è anche un intreccio di cose presenti e andate, di rimandi tra
diversi piani dell’Essere mai totalmente certi, di fantasmagorie che si
impongono e si negano con analoga rapidità: “Un corpo è venuto a piedi/ da
uno squarcio della notte,/ sei tu che cammini/ coperta di polvere?/ Sei tu
nella goccia/ di un lavandino?/ Non ti vedo, so che ci sei./ Ti parlerò,/
basteranno le parole/ che ho taciuto,/ righe saltate/ che fanno riparlare del
destino./ Tutto diventa cenere/ appena lo tocchi con la mano”.
A tale gioco
di visione e presenza non si sottrae ovviamente neppure l’amore che ha
l’assurda caratteristica di non scomparire mai fino in fondo, di inseguirci
e continuare sempre a essere nella latenza (“Non sarò mai così lontano/ da
vederti sparire”; “Mi sono immerso/ nel fondo del mare/ per vedere se tu
c’eri,/ veloce ragazza/ limpida e libera,/ primordiale coincidenza/ di astri e
boschi,/ superstiti di lontane frane/ abbiamo imparato/ a camminare insieme,/
in bilico tra l’onda/ e un vento di levante,/ dove andavamo?/ dove nasceva
l’alba?”).
Leggere
questo testo è appunto accettare di affrontare la sospensione in cui
“esistere è guardarsi/ nell’andare via”, correre verso un futuro sapendo che
“Sorridono ancora le facce/ che scompaiono/ se ti volti a guardarle”.
Brunini ha saputo farlo senza mai cedere allo scoramento cardelliano di chi si
lascia andare e decide di annegare nel tempo.
Matteo Fais
Lento ritorno, l'ultimo libro di poesie di Bruno Brunini, nota di lettura di Giovanni Maurizi (19 Aprile 2022)
In Lento ritorno (La Vita Felice, 2021),
l'ultimo lavoro di Bruno Brunini, si sente il pathos per un tempo che è
perduto, o si crede perduto, ma che continua a illuminare la vita di chi resta.
In questa raccolta, emerge infatti, il valore di una
memoria ritrovata, che la poesia consente di ripercorrere con uno sguardo
nuovo.
Ignorando l’idea lineare del tempo, tra eventi che
segnano la nostra epoca e vicende personali che possono assumere una dimensione
universale, luoghi, persone, periodi diversi della vita e della storia, si
fondono nel presente, acquistando una risonanza diversa.
Nel fluire incessante di pensieri, di immagini, oltre
alle figure del padre e della madre, c'è la presenza femminile, amata e quasi
evocata dall’autore a sua difesa in un mondo divenuto inconoscibile.
Per il lettore poi sono importanti, a non perdere
l'orientamento, i tanti toponimi che si riferiscono a Napoli, Punta Campanella,
Santa Lucia, San Gaetano, salita San Raffaele, Procida, Torre Murata al Porto,
per non dire del Vomero e di Posillipo.
Ma per Brunini il ritorno verso la propria vita è
anche il tempo che permette la riflessione di un’identità mutata rispetto
all’inafferrabilità dell’esistenza, come se la parola custodisse una sua inalterabile
cifra enigmatica.
Tra gli elementi più importanti di quest’intensa ricerca
poetica, c’è la luce. Anche quando sembra oggetto di negazione: “Tra
l'oscurità e il presente”, prevale
invece quell’impasto di luce e ombra che fonda la nostra umana fragilità.
Ed è un topos ricorrente nei versi di Brunini, che
spinge la poesia in una zona limite che non appartiene al corso abituale e
ripetitivo del tempo, basti pensare al suo libro precedente “Ombra di vita”.
L'altro elemento che è fondamentale qui è l'acqua, con
la sua forza analogica, in cui si intrecciano i flussi di vita e di morte
dell’universo, quasi che si tratti di un principio materno e iniziale, ma
onnicomprensivo e quindi anche finale.
Ma è tutta la raccolta ad essere fitta di simboli, ed
è una continua tessitura che non lascia residui non poetici, in altri termini
ci sono in essa esattezza e nitore. Ho scelto un poesia breve per esprimere
meglio ciò che intendo: Talvolta appariva/sulla cima di un'onda/che bagna i
tuoi pensieri,/mentre il martello batte/sui fianchi della roccia/la signora del
mare/sfiora l'acqua,/soffia nella conchiglia/per risvegliare il vento,/stelle
morte da secoli.
E nonostante la raccolta sia ripartita in sette parti,
più una poesia introduttiva, si può leggere in continuità perché ha in sé una
struttura che definirei poematica, con una lingua che s'accosta alla singola
parola sempre in modo cauto e uniforme. E in fondo è proprio la ricerca
linguistica che sottende i tanti pregi di questo volume che si impone come una
singolarità nel paesaggio poetico contemporaneo.
Giovanni Maurizi
“Enclave”, (La Vita Felice,2017) la raccolta poetica di Bruno Brunini - recensione di Sergio Rotino
Una poesia spinta fino alle periferie del lavoro alienante
Cosa: Recensione di
Enclave, di Bruno Brunini
Presa
nella definizione che ne offre il dizionario, “enclave” appare oggi non
solo come una parola inconsueta, se non proprio desueta, ma anche priva
di significato. Invece è una parola che ha ragione di esistere nella società contemporanea.
Enclave sono di fatto quei luoghi in cui nella contemporaneità si creano aggregazioni di persone dovute all’esclusione o all’espulsione da altri luoghi.
Per ampliamento di significato, sono certe zone delle periferie e certi
stabili di periferia dove si consumano le esistenze di immigrati, di
disagiati, di poveri. Possono essere definite come enclave, porzioni di
territorio urbano abbandonate a se stesse per quanto riguarda l’umanità
che le abita. Sono quindi dei ghetti moderni, sono le banlieu francesi.
Ma enclave possono essere definiti anche i pensieri, i desideri, i
bisogni che passano inascoltati per il mondo circostante, fino a poter
essere definiti come estranei. È una segregazione apparentemente non
coercitiva, che la società odierna opera su determinate tipologie di
individui, per ragioni le più varie, mai del tutto oneste.
Proprio Enclave si intitola la quarta raccolta poetica di Bruno Brunini.
Ma per comprendere almeno in parte questo titolo, bisogna tornare a
collegare l’autore con la “non scuola” di scrittori attiva attorno al
mai dimenticato Roberto Roversi, una trentina di anni
addietro. Roversi è stato uno dei più importanti esponenti della poesia
italiana del Novecento, un uomo di lettere, un intellettuale appartato
dall’agone politico-letterario eppure sempre attivo in questi campi.
Brunini, che a Bologna vive da sempre, è stato uno dei fondatori della Cooperativa Dispacci voluta anche da Roversi negli anni Ottanta. È da lì, dalla vicinanza con l’autore bolognese, che prende forma l’innesco di Enclave.
È lì che possiamo trovare il motore primo da cui Brunini, con lingua
poetica autonoma, scruta la realtà, dall’affrontarla attraverso l’elaborazione di un ragionamento mai casuale. Rispetto però al “non maestro” Roversi, il “non allievo” Brunini
propone da sempre una scrittura più asciutta e verticale, più
spiccatamente narrativo-cronachistica, più aderente al reale ma non al realismo tout court.
La sua è infatti una poesia che da sempre propone tratti fortemente
impressionistici, supportati in questo caso da una frequente proposta di
elenchi, di correlativi oggettivi, di frasi paratattiche. Questo
accumulo crea il paesaggio, sia esteriore che interiore, dell’intera
raccolta; documenta la realtà oggettiva sui cui si sviluppa e la
riflessione che ne scaturisce.
La tradizione poetica novecentesca in Enclave
è sempre dichiarata, come si nota in certi attacchi (Ma tornano/dal
buio sepolto dentro il giorno/le ombre mute delle ciminiere), nei
successivi sviluppi spiccatamente narrativi (nei tramonti delle
periferie/cittadini di nessun posto/camminano,/sulla loro ombra), in
alcune citazioni nascoste o involontarie di alcuni autori.
Vi è anche una spinta anch’essa novecentesca a rendere più oscuro il
significato dei testi, in favore di un sentimento del tragico che poggia
sopra il meccanismo retorico del coinvolgere il lettore in un gioco di rispecchiamenti
(Il tuo corpo/è solo una formula per loro/che senza sonno ti
conduce/sulla cima delle porte,/che diventano/ago, torpore,/l’ombra di
un infermiere). Un tragico che quindi resta parzialmente inspiegabile,
che spesso si focalizza sull’immagine per farsi concetto e concretezza.
Ecco allora la “nuova povertà/delle pietre”, che “muove la cronaca”,
oppure la precaria “illusione dei giorni”.
Brunini inonda le immagini dei suoi testi di luce o di buio (materica
e non), per dar loro profondità visiva e di argomentazione. In questo
modo il racconto che ne scaturisce, per quanto di ascendenza fortemente
Romantica, si fa a tratti epico. Sono spesso le chiuse, con un accento
retorico ben orchestrato, ad affermare il richiamo all’epicità.
Brunini non cerca però il retorico, non lo stimola a farsi presente e
preponderante. Prova a tenere il discorso sempre lì dove la solitudine
appare un prodotto della disperazione, dello sfruttamento sociale, della
privazione dei diritti e, in genere, su una linea di raffreddamento.
Spesso infatti i testi appaiono come cronache universalizzate dove la
voce del poeta è voce del cronista e la partecipazione emotiva risulta
secondaria rispetto alla descrizione. Così “Finestre si affacciano/su
altre finestre,/fantasmi di stanze/lasciano occhi sul davanzale/alveare
di nomi/che la luce ignora”, con il suo citare un incipit di Luciano
Erba, è un esempio fra i molti possibili.
Mostra come Enclave voglia raccontare il nostro passato prossimo e il nostro presente,
la sua precarietà, la frattura sempre più evidente fra chi viene
rifiutato dalla società corrente e chi non vuole vedere la deriva
egoistica che ci avvolge senza remissione. Mostra la partecipazione
dell’autore, come anche il suo voler tenere la parola poetica lontana
dalle facili scorciatoie che portano al falso buonismo.
Sergio Rotino
https://www.bolognacult.it/2018/07/02/enclave-di-bruno-brunini/
La poesia di Brunini rivendica un ruolo di denuncia
sociale. E lancia un monito agli intellettuali nella torre d’avorio
3 dicembre
2017
Quale sia il
compito della poesia è praticamente impossibile stabilirlo. Tutto
l’ambito poetico ha di per sé i connotati di una gigantesca incognita, o di un
enigma indecifrabile. Si comincia con l’annosa domanda riguardo a cosa si
debba intendere per poesia e da lì decine di interrogativi scaturiscono,
producendo un infinito numero di risposte. La soluzione non pare essere
a portata di mano, così come ogni aspetto fondamentale della vita di
quell’essere che si è soliti definire umano.
La poesia ha
questa caratteristica: ogni volta che sembra di essere giunti al cuore del suo
segreto, essa ci sfugge. Dunque che cosa dovrebbe fare il critico, arrendersi
alla datità? Prendere atto che esistono dei testi comunemente identificati come
poesia… per poi fare cosa?
Più spesso
che mai, chiunque scriva in merito non sa come districarsi entro simili
questioni e ognuno si comporta fingendo di essere perfettamente consapevole
della materia di cui tratta. Le soluzioni, sovente adottate, sono di assumere
come propri parametri quelli consolidati entro certe tendenze generali, quali
la critica accademica o quella militante. Inevitabilmente simili assunzioni si
risolvono in attività sterili, o d’ufficio, come avvalorare la produzione di un
determinato poeta perché ascrivibile alla stessa ideologia del critico e via
dicendo.
In verità,
chiunque abbia un po’ di consuetudine sa, pur non essendo in grado di
esplicarlo, cosa sia la poesia. Ne ha consapevolezza nello stesso modo in cui,
secondo Sant’Agostino, si ha coscienza del Tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo
so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. Molta della
confusione in merito è derivata dall’ingresso in un contesto culturale
postmoderno che ha reso fluidi tutti i confini netti.
Si può, per
esempio, oggigiorno dire in modo inequivocabile cosa sia arte e cosa mero
intrattenimento? Una canzone di Battisti, o De André, è arte o industria
culturale? Una serie televisiva è arte o semplice divertimento per il dopocena?
Sicuramente Desperate Housewives, o Black Mirror, hanno aspetti e
finezze per cui, se proprio non sono arte nel senso in cui lo è un film di
Bergman, certamente vi si avvicinano tanto da lasciare spiazzati. Simili
discussioni di carattere estetico porterebbero comunque troppo lontano e
necessiterebbero di più ampio spazio anche solo per essere accennate.
Il poeta, a ogni modo, sa in cuor suo
cosa sia poesia. La riconosce quando la scrive e quando la legge.
Soprattutto, è consapevole di quale debba essere l’argomento della sua
poesia. La cogenza di certe tematiche si impone naturalmente, oggi che
il poeta non è più il cortigiano, dalle grandi doti letterarie, al quale
vengono assegnati determinati compiti specifici da trattare. Nell’ottica della
postmodernità, poi, ogni punto di vista trova diritto di cittadinanza. Non è
tuttavia un caso che in Italia prevalga l’orientamento intimistico,
lirico e sentimentale. Si tratta di una tradizione. È infatti
piuttosto raro che un poeta si addentri entro la questione politica, civile e
urbana.
In
controtendenza rispetto a tale stato di cose si pone Enclave,
ultima fatica poetica di Bruno Brunini, uscito nel 2017 per le edizioni
di La Vita Felice. Un titolo incredibilmente appropriato e sintetico per
descrivere tutte quelle realtà nella realtà dell’urbanesimo
contemporaneo. Vi trovano spazio le periferie, i luoghi del lavoro
alienante e, al contempo, gli stati esistenziali che queste
situazioni cagionano nell’uomo – l’ultima sezione del testo si intitola non a
caso Naufragi. Un libro, quindi, quello del Brunini, che si muove
geograficamente e interiormente, seguendo la corrente sporca e malsana di quel
gorgo che dall’esterno – la metropoli e le sue sacche di disperazione – si va a
riversare nell’intimo di ognuno di noi.
Con onestà,
bisogna riconoscere che Brunini non è né il primo né l’ultimo ad aver
affrontato una simile materia. Abbiamo avuto, su tutti, l’ormai conclamato Simone
Cattaneo. Ma non si dimentichino neppure Fabiano Alborghetti e Alberto
Dubito, tanto per citarne alcuni. Vi sono però certune peculiarità
che sembrano contraddistinguere l’autore di Enclave. In primo luogo,
Brunini dimostra una dote molto analitica e, al contempo, ad ampio
raggio nella descrizione del reale.
Il secondo
aspetto, che salta immediatamente all’occhio, sta nella scelta linguistica: la
maggior parte dei poeti, che hanno inteso intraprendere una descrizione del
reale in versi, hanno comunque dovuto fare una scelta per un linguaggio meno
alto e più propriamente affine, se non mimetico, a quello quotidiano. Al
contrario, Brunini ha una insolita capacità di coniugare indagine sociale e
lirismo, con un rigore formale che non lascia dubbi in merito alle sue
qualità, come si evince fin dalla prima poesia del testo: “[…] non questo
giorno/ ma il suo rovescio/ batte l’insonnia/ di interminabili palazzoni,/
scompiglio di sillabe non dette/ si posa/ nel frastuono della tangenziale,/ non
basta cercare per strada/ ragioni e salvezza,/ la sveglia, la sete/ il sogno di
essere qui per caso/ dove i pendolari/ gettano la loro fame ai gatti,/ solo
voci che volevano parlare/ saranno nuvole,/ foglie senza racconto/ come farà
l’alba a spuntare?”.
Al di là di
queste virtù stilistiche, più di tutto bisogna riconoscere all’autore l’attenzione
per una serie di problemi e argomenti che, com’è caratteristico dei periodi
di decadenza, malgrado la loro rilevanza, nessuno sembra voler guardare in
faccia, prediligendo i divertissement. Le periferie, enclave di
disperazione, il lavoro alienante e le ripercussioni esistenziali del nostro
mondo sono i grandi assenti dal panorama letterario corrente, finanche
narrativo (un’eccezione in tal senso è, per esempio, Nicola Rubino entra in
fabbrica di Francesco Dezio).
Bruno
Brunini si pone quindi, con la sua produzione, come uno dei pochi poeti della
più stretta attualità realmente degni di nota. La sua poesia assurge a monito
e denuncia di una realtà e di una condizione disumana che l’intellettuale,
il poeta, e il narratore engagé dovrebbero una volta per tutte ricominciare a
indagare, nel tentativo di recuperare il loro ruolo e funzione nella società.
Matteo Fais
https://www.vvox.it/2017/12/03/enclave-viaggio-nelle-periferie-del-lavoro-alienante/
Commento di Francesco Dezio su Enclave
(2017)
Bruno Brunini, un poeta da tenere d'occhio, di quelli che sondano realtà molto
terrene e parecchio umane: raccontare la disperazione, le periferie (e chi ne
fa parte), osservare questi territori con attenzione, sporcandosi le mani,
scendendo negli inferi (tra la gente) - facendone parte essi stessi, standoci
dentro, vivendo, pensando e mangiando come loro - è uno dei compiti che un
artista si deve prefiggere se ha la pretesa di raccontare il reale. Ruolo a
cui, molta letteratura (non parliamo poi della forma poetica), pare aver
abdicato, rifugge, scansa, ribalta in lieto fine questo genere di temi (meglio
ancora se li evita, per non disturbare il sonnolento, anestetizzato lettore) in
questi anni e con la "grande editoria" che ci ritroviamo.
Dall’intervento
di Luigi Perillo alla presentazione di Enclave al “Graf” di San Donato, Bologna, sabato
13 gennaio 2018
Non è la prima raccolta di poesie di Bruno
Brunini che leggo e nel vagabondare tra i suoi libri, tra le pieghe dei suoi
testi di prosa o di poesia, ho sempre trovato degli spunti di riflessione
appassionanti ed eterogenei. Dal viaggio a ritroso in una Napoli diversa dal
ricordo che ci si porta, ma che lascia comunque “l’odore del mare sui sedili
dell’auto”(Il Viaggio Capovolto,
1999), alle marginalità disperate di una New York pietrificata nell’assalto
alle torri gemelle, dove il narrare crudo e fecondo si sposa con la poeticità
delle immagini, evocative e portatrici di umanità (Appena oltre Brooklin, 2005).
Fino al suo precedente libro di poesia Ombra di vita che senza sentimentalismi
o immagini patetiche affronta il tema della perdita di una persona cara.
Questa sua nuova raccolta di poesia Enclave, invece, ha il potere di ridurre
in briciole i confini, la distanza, perché le solitudini che racconta, quel
disamore, quella ricerca dell’altro, non hanno luogo dove non alligneranno.
Esistono ovunque, con attese e lingue diverse, ma con lo stesso gelo
nell’anima.
Le sezioni che scandiscono questa raccolta: “Periferia”,
“Turni di Lavoro”, “Naufragi”, corrispondono a stati umani, fisici, prima
ancora che a stati del pensiero.
Sprezzante dell’ipocrisia del lieto fine, la
poesia di Brunini, non è fuga dalla vita, non si rassegna all’oblio, racconta
fallimenti e ripartenze, attese e speranze, vibranti di vita, di una umanità
che si può incontrare per strada nella luce delle lampadine gialle dell’ultimo
tram, che a Secondigliano come nelle borgate romane, a Palermo come negli orti
bolognesi, riporta in periferia quanti hanno assaggiato per un giorno il
luccichio del centro cittadino. Un’umanità dimenticata perché ingombrante,
cacofonica per antonomasia e antiestetica, per fato o per scelta.
La parola evoca, la parola concede immagini, e
le immagini evocate dai versi a volte si materializzano inaspettate, lacerando
il foglio, con profondi echi interiori, come si legge nella lirica: “dove si
ferma la nostra voce,/la luce si alza/sopra la città,/ci fa pensare a ciò che
siamo/ombre volate da un respiro/nella notte scissa.”
Questi versi taglienti come rasoiate lasciano
la ferita della verità e la cicatrice dell’evidenza di un vivere precario che,
spesso, ha come unica prospettiva la totale assenza di prospettive.
Luigi Perillo
Serenella Gatti Linares su Enclave
(2018)
Uno
degli elementi che mi colpiscono di più in Bruno Brunini è la coincidenza fra
la sua poesia e il suo modo di essere. Questo per me è molto importante.
Insomma, non solo scrivere poesie, ma, soprattutto, vivere in modo poetico.
Prendiamo il suo ultimo libro: “Enclave”. La prima cosa che mi viene da dire è:
poesia civile, sociale, impegnata, (termini ambigui e discutibili), ma niente paura… Non è poesia noiosa o pesante, piuttosto la
testimonianza di un’appassionata aderenza e partecipazione alla realtà, alla
quotidianità, a ciò che oggi ci circonda. Una poesia da centellinare,
gradualmente, come si fa con un aperitivo estivo in riva al mare… Il libro
precedente, “Ombra di vita”, anch’esso bellissimo, era più intimista, sul
confine fra vita e morte, sull’immenso mistero che ci circonda.Ma anche qui è
presente il fragile confine fra luce e buio, fra bianco e nero, fra giorno e
notte, fra pieno e vuoto, fra caldo e freddo, fra silenzio e rumore, fra nuovo
e vecchio, fra dentro e fuori.E alla fine gli opposti o contrari si riuniscono,
si riequilibrano in armonia.Ad esempio, la sezione “Periferia” mi intriga
particolarmente, perché da anni organizzo una Rassegna culturale nella
semiperiferia di un Quartiere bolognese. Pasolini, Verga, Foscolo, Ungaretti,
Vasco Rossi, Gaber, Battisti, De Gregori, Charlie Chaplin…: varie voci
riecheggiano sullo sfondo, tante canzoni e musica, che coincidono con la musicalità
del verso. Metafore, consonanze, assonanze, rime, ossimori, termini
attualissimi caratterizzano lo stile formale. Colori, arcobaleni, rosso, nero,
grigio, giallo, rosa, azzurro, e soprattutto bianco, che simboleggia la
solitudine di chi resiste, ma anche la preminenza della luminosità. I temi sono
attuali, originali, di cui ci si occupa poco: periferie, mondo del lavoro,
naufragi, orti, nuove tecnologie, musiche blues, stranieri in città…: la
società liquida dei non-luoghi. Sullo sfondo è Bologna con i suoi
portici, le vie, i palazzoni, la multiculturalità sempre più diffusa. “Piazza dell’Unità/
si colora di tinte/… in un luogo/ che non è in nessunluogo”.Il concreto è
elevato a dignità d’arte tramite la parola poetica, fra le nuvole e il vento.
Il peso e lo sporco sono riscattati dalla scelta delle parole che li fa
diventare leggeri. Raccontare in modo semplice cose complesse. Gli argomenti
principali sono le donne, gli anziani, i sogni, i ricordi, l’amicizia, l’amore,
che corrispondono alla parte luminosa.“…sei l’attimo che sto vivendo,/
pronuncerò per te queste parole/ e sarà la tua voce a parlare…”Ma ci sono
anche clochard, operai, mancanza di lavoro, distanza, muri, incomunicabilità,
lotta fra vincitori e vinti, limitazioni di libertà, morti nel Mediterraneo,
nuove povertà, che si riferiscono al lato oscuro.“…per questi viali asiatici
e africani/ la luna non buca/ la tenda della notte”.Il dolore è
sotterraneo, eppure in qualche modo illuminato.“…la vibrazione dei metalli/
scuote il buio compatto/nero…”Oltre le macchine e l’automazione, oltre le
finestre opache, il viso di lei esiste, così come gli alberi fioriti. Oltre la
polvere, è possibile sognare il mare. “… le parti di un giorno/ che avverti/
come un cieco sul viso/ il calore di un sole”.Nonostante tutto, la porta
rimane sempre aperta alla speranza. Resta viva l’attesa, sospesa fra verità e
menzogna, di qualcosa che possa riportare di nuovo in alto, che riesca a dare
voce a chi non ha voce. Fra gelo e calore può predominare il fuoco.“…si
salva in chiarezza,/ tra le ossa del giorno/ brillano soli”.
Certo
restano domande e dubbi, ma fra luce e buio alla fine prevale la luce. E di
questo messaggio fra le righe ringrazio Bruno Brunini.
Serenella Gatti Linares
“Dove i pendolari gettano la fame ai gatti”, poesie da “Enclave”, La Vita Felice 2017, di Bruno Brunini
http://www.lamacchinasognante.com/tag/bruno-brunini/
Loredana
Magazzeni su “Enclave” di Bruno Brunini
(2017)
Lo sguardo di Brunini, in questa raccolta di
poesie, riflette il senso di una comunità, che soprattutto nella prima sezione,
“Periferia” e nella terza, “Naufragi”,
include i migranti, le minoranze, luoghi, voci, persone che incontriamo
ogni giorno nelle situazioni più diverse, in queste enclave delle periferie. Ed
è uno sguardo attento all’altro da noi, attraverso il quale il presente, in cui
a prevalere è l’anomia,la precarietà esistenziale, il senso di insicurezza,
comincia ad aprirsi all’autore, con quel tono di magia, interpretando il
pensiero di Gregorio Scalise, una magia che si affida alla parola poetica come
qualcosa che va oltre il puro accadimento.
Quella di Brunini è anche una poesia molto
visiva, non descrittiva, ma partecipativa, che svela, che mostra, senza
eccessi, con pacatezza, dove possiamo ritrovare l’archeologia dei luoghi che
emergono come frammenti di un tempo dimenticato, a cui la poesia può ridare
significato, come accade anche nella seconda, delle tre sezioni che compongono
il libro, dedicata al lavoro.
La realtà della fabbrica, la condizione
straniante di chi ci lavora, vengono infatti raccontate nei risvolti più aspri,
ma sempre attraverso una scrittura non realistica, magica, leggera, rarefatta,
dove la parola diventa bullone, attrezzo, pane, ciminiere, lavoro, pietra, che
si carica di tutto il proprio peso e della propria memoria, ma che poi
attraverso la poesia arriva a una rarefazione e a un superamento del reale.
Nei diversi modi e percorsi di questa raccolta,
in cui si manifestano il tempo incerto della storia e le lacerazioni
dell’esperienza personale, si riconosce
l’azione dell’autore di testimone importante ed empatico di quello accade nella nostra realtà.
Attraverso questi mondi di confine senza
orizzonte di Enclave, riportati in
una dimensione che riguarda un destino collettivo, si percepisce nella
scrittura una specie di serenità amara, che però non è rassegnazione, ma presa
di coscienza di dover farsi carico di quello che c’è intorno a noi,
inseguendone il molteplice divenire, con la forza espressiva di una parola
poetica che diventa forma di ricerca e di resistenza.
Poesia - Letteratura
- Musica - Spettacolo:
Recensione di Rita Pacilio su Ombra di vita
di Bruno Brunini – La
Vita Felice 2012
30/ott/2012
L’esperienza poetica di Bruno Brunini riduce in modo
energico gli spazi narrativi e la metafora mimetica di cui è ricca molta
scrittura post moderna. Ombra di vita è un’opera caratterizzata dalla
sovrapposizione dello spazio-tempo in cui le cose passate e quelle presenti
sconfinano in una testimonianza ben distinta della realtà quotidiana che è pur
sempre in bilico tra la vita e la morte "Il tempo che non coincide /con ciò che
si pensa/ ritornava cancellato." Il percorso tra le sezioni del libro è lineare
ed è segnato dal vissuto personale dell’autore fino ad arrivare a cambi di
prospettiva in cui la visione soggettiva diventa situazione cosmica "Essere
aria, un soffio /nel tempo del ritmo cosmico … le ore possono diventare anni."
L’attraversamento delle tenebre della morte ci introducono in una lunga notte
in cui Brunini accompagna ogni lettore per meglio entrare in dialogo con il
tempo e le sue voci passate. La frequentazione dei confini vitali ci mette di
fronte alle immagini di luogo e persona attraverso impulsi inconsci, che ci
affidano alla quiete del mare o alla riva - Torneremo ad essere mare. La
materialità dell’uomo si consuma nel corpo e nella forma mentale che,
nonostante l’avvicinarsi della sua fine, combatte per mantenere saldo il
racconto, la dimora, l’identificazione, l’unicità. L’autore, mentre piange
lacrime asciutte, sorveglia il lettore e lo rassicura sull’approdo del resto
materico, che non va disperso, ma reso al mondo, all’essenza vitale dell’acqua
che nutre e si nutre di vita "Ti vedo partire/ nel fondo del mare/ dove non
finirai mai di sparire." Questa stessa energia viene collocata in quel mare che
ci rende visibili, che ci risorge al mondo, che ci fa emergere da una elegia
drammatica e pessimistica, che lenisce e rinnova la cava di sale che portiamo
dentro. La metamorfosi del corpo malato entra in contrasto con l’impulso
dell’atto della parola poetica che è pienamente sana, viva. La poesia è l’antidoto
sostanziale che ci spinge ad aprire un altro spazio-tempo in cui immortalare il
ricordo, la memoria dell’altro (da noi e in noi) che viene a mancare, che
scompare a se stesso - I fogli delle tue poesie … conservano la traccia di
te. L’elaborazione del lutto è affidata
alla capacità dell’intelligenza colta che non si dispera, ma che impara a
spostare l’occhio su un piano d’osservazione diverso. Il dolore nutrito dalle emozioni
primarie entra in contatto immediato con l’agire delle stesse emozioni
traducendo la crudeltà della sorte in una ‘poesia del destino’.
http://ritapacilio.blogspot.com/2012/10/recensione-rita-pacilio-su-ombre-di.html
dall’intervento di Claudio Beghelli alla presentazione di Ombra di vita di Bruno Brunini
Libreria Feltrinelli International – Bologna 22 novembre 2012
Se ha ragione Paul Celan, la poesia sarebbe un “Canto d’emergenza dei pensieri/ nato da un sentimento…”
Ciò che viene testimoniato e cristallizzato nella parola poetica è sempre una situazione limite, tale da eccedere
qualsiasi linguaggio quotidiano o convenzionale. Nel momento in cui
l’urgenza di parlare è avvertita, la poesia si spinge fino all’estremo
margine di ciò che può essere detto, cercando di raffigurare
accadimenti, pensieri, sogni e conflitti che fatalmente si compiono in
uno spazio che solitamente è inaccessibile alle parole. Questa è la
parola letteraria. Un corpo a corpo, con l’indicibile, un duello contro
il vuoto, contro l’assenza e lo svanire, per aprire un varco nel
silenzio del dolore del “dopo”: questo è la raccolta di Brunini. (“…il
dolore gira/nel rumore del giorno che passa/ il dolore è sabbia e
oscurità per gli occhi)
Il sentimento
dominante – non l’unico – da cui prendono forma i versi è il dolore: il
sentimento tragico della separazione ineluttabile da una persona
vicina, che “vediamo svanire” – volgendo al plurale il
primo verso di una struggente poesia contenuta in questo intensissimo,
incandescente libro di Brunini – e che dobbiamo accompagnare verso la
foce della propria vita, aiutandola, per quanto possibile, ad uscire dal
mondo nonostante la consapevolezza della nostra assoluta inadeguatezza,
perché come ha scritto Celine: “Si manca di quasi tutto quello che
occorre per aiutare un uomo a morire”.
Brunini è
maestro nel rendere tutto questo con grazia, sobrietà e misura, senza
mai scadere, anche quando i versi si venano di una legittima quanto
indelebile nostalgia, nel patetico e nel sentimentalismo. Si potrebbe
anzi dire che Brunini possiede la rara capacità di partire da fatti
minimi e privati, quasi diaristici e, attraverso immagini e metafore
dirette e immediatamente trasparenti, riesce a conferire ad essi un
respiro più profondo e ampio, un significato universale, che – come tale
– esprime l’angoscia, la speranza, il rimpianto, la tenerezza, e gli
abbandoni comuni a tutti coloro che hanno esperienza, della tormentata
bellezza, e, infine, della assurda crudeltà della condizione umana.
Svanire, sparire: sono verbi che
ricorrono con una certa frequenza in “Ombra di vita”, sono il filo che
annoda e coniuga una poesia con la precedente e la successiva di questa
raccolta. La realtà è, forse, tutto ciò che, nell'accadere, scompare? Se
questo è vero – ed è ciò che Brunini pare asserire, implicitamente – la
vita non è altro che una serie progressiva di quelle che in cinema si
chiamano “dissolvenze incrociate”, che sfumano e trascolorano
continuamente l'una nell'altra. I pensieri del poeta sembrano spezzarsi
per un cortocircuito della memoria, e i versi procedono per ellissi
temporali, come i flashback di un film. Accade, allora, che nel passare
da un verso al successivo, ci troviamo improvvisamente sospinti
all'indietro: dal tempo presente (del lutto) al tempo trascorso,
interiore, intimo e viceversa (i ricordi, le istantanee della
giovinezza, i momenti vissuti insieme, le stratificazioni temporali che
formano l'identità). In sintesi, Brunini è poeta del commiato e
dell'eterna dissolvenza.
Ma, “C'è qualcosa che, nello svanire,
rimane”. Che cosa? Una possibile risposta si trova nei tre versi
iniziali dell'ultima poesia, il “ricordo/ che dà un nome/ a ciò che di
te è cenere...”
Come sostiene Derrida, “alla morte
dell'altro siamo destinati alla memoria, e, dunque,
all'interiorizzazione, perchè l'altro, fuori di noi, non è più niente;
dobbiamo portarlo in noi”: vivere anche in suo nome, testimoniare
per lui. E l'altro, che può essere nominato, ma non può più rispondere,
continua Derrida, ci “appare proprio come lo scomparso che non lascia 'in noi' che delle immagini”: gesti, parole, scritti, “tratti caratterisitici”,
che assorbiamo, quasi inavvertitamente, fino a scoprire, un giorno, che
essi sono diventati parte integrante della nostra personalità e – come
afferma Hilman - “ci fanno da guida”. (Si veda, a tal
proposito, la poesia a pagina 51 della raccolta: “Parlavo allo scaffale
dei tuoi libri.../ con i tuoi gesti, rimetto in ordine gli oggetti/ per
sentire ancora la tua voce di fratello...”)
A suffragio di quanto detto, voglio citare gli ultimi tre bellissimi versi della poesia di Brunini “Vedo il tuo svanire”,
che esprimono, in modo sintetico ed icastico il senso di una riuscita
elaborazione del lutto: “Nella mia mano conservo/ il senso di quello che
hai cercato/ per regalarlo”.
Elisa Druent per "Ombra di vita"
Con un moto ondulatorio, che a tratti sfiora il
precipizio per ritrovare subito dopo punti di equilibrio, nei versi di “Ombra
di vita” si riavvolge una trama, la trama di una di vita, ricomponendo lo
strappo che l’ha appena interrotta, e così "La tua voce / che fugge dalle labbra
/ sul bianco del balcone…bambini impolverati / nell’odore dei vicoli antichi."
Tra immediatezze di sguardo e profondità di campo (Sanno le mani / come i muri
ascoltano / la poesia che rinfresca la fronte / che non ti lascia svanire nel
niente),
come partenze e ritorni dei giorni che sono stati, riprendendo uno scambio con l’esistenza
venuta a mancare, con un mondo che non c’è più, la percezione
dell’inarrestabilità del tutto, dapprima con passo lento, parola dopo parola si
fa vertiginosa: "Ceneri gettate / Il tuo viso / si perde / riappare / la tua
voce su e giù per la corrente / il tuo pensiero / ritorna al silenzio dei
pesci."
Attraverso la ciclicità di immagini che emergono per poi
inabissarsi nel mare indistinto della memoria e in quella che diviene poco alla
volta la graduale consapevolezza del distacco, "e i minuti svaniscono / in un
giro di lancette / che si ferma / dove tu saluti", si percorrono i molteplici
nessi che le emozioni e le riflessioni provocano. E intanto la prospettiva si
sposta e si porta verso un’altra fase, un altro tempo. "Il vetro ghiacciato /
che si spacca / in un punto del silenzio / un mucchio di pensieri / usciti di
misura… e lì, oltre la porta / il giorno inesplorato." La comunicazione che
l’autore sollecita tra dimensioni inconciliabili in tal modo si avvia, prende
forma, quello che non è più torna ad essere, nella mente come nello sguardo, lo
spazio del possibile si estende a ogni espressione che il vocabolario in sé
contiene.
La parola fine, inconsapevolmente forse, non è mai
davvero contemplata fino in fondo nel nostro lessico, almeno per quanto
riguarda le persone a noi vicine, e nei versi di Brunini si fa dialogo; la
scomparsa, la morte, diventa parola viva, relazione aperta: "Oscillando nel
dondolìo del sonno… nessun centro ti trattiene / il ciclo dei pianeti, i giorni
di marea / lo zenit e l’orizzonte / tra Pegaso e l’acquario… la notte delle
origini / il molto e il niente."
In 2013, Anno VII - Numero 1, Gennaio
- Marzo, Notizie Letterarie, Sommario l'EstroVerso
“In un’apparente linearità di percorso, riservano improvvisi
cortocircuiti da cui affiorano illuminazioni e straniamenti che riflettono
l’inafferrabilità dell’esistenza”. Così Giorgio Celli definisce i versi di
Bruno Brunini attraversati dal dolore per la perdita di una persona amata, dal
desiderio acceso di riconciliazione con se stesso e col mondo. “Inutilmente
cerco / ciò che non può più essere raggiunto”, “La cenere è ancora tiepida / il
calice, vuotato in mare, / morbida discesa verso il riposo. / Nella luce
irreale del distacco / scorri via / sei onda, fuoco, / sei sabbia e tempo, / ti
vedo partire / nel fondo del mare / dove non finirai mai di sparire”.
Disillusione, smarrimento, angoscia, senso d’impotenza, lacerazione interiore,
memorie di un vissuto incolmabile, impregnano ogni singolo componimento. La
poesia è radiazione luminosa, “la poesia che rinfresca la fronte / che non ti
lascia svanire nel niente. // A te devo
il futuro. Respiro / per diventare la tua nicchia”.
andrea masotti
il blog di Andrea Masotti
Mi risulta difficile riportare una singola poesia di questa
bella raccolta, tanto l’una si trasferisce nell’altra. Una poesia semplice e pura, Ombra di vita è un libro, come
è stato definito, prezioso.
Roberto Roversi ha scritto nella Postfazione al libro Strade interrotte (Edizioni Mongolfiera, 1990):
In
questi testi che conosco bene, avendone seguito il viaggio della
scrittura è in atto un passaggio lento ma progressivo, fortemente voluto
e patito dall'autore, dall'esterno del mondo reale, delle cose, verso
la caverna dei sentimenti, rivoltati o stravolti ma soprattutto
spaventati come un'onda di pipistrelli senza pace.
L'occhio e
il cuore inseguono incessantemente i movimenti, le vicende, il
frantumarsi del mondo così come lo hanno vissuto e lo vivono, quasi
scontrandosi con uno specchio perché incalzati dal gesto di un diavolo
scatenato; dato che occhio e cuore partecipano di un modo di guardare il
mondo che contende ogni frammento di realtà, ogni rapida movenza -
dentro al giuoco di ombre e di fuoco che è la nostra vita oggi - alla
sopraffazione e alla morte.
Questo passaggio non è però
categorico e neppure subito evidente (anche se vorrei sottolineare e
ricordare un verso di pagina tre, all'inizio: "il tempo che distrugge è
il tempo che conserva"); non è avviato a cuore aperto, cioè con un
percorso in evidenza, quasi fosse una ferita che ancora consuma sangue;
ma piuttosto con un infaticabile scavare da talpa, ferendosi le mani
nello stesso tempo radunando le parole come pietre; le pietre delle
parole per la costruzione progressiva di un fortino delle comunicazione;
per delimitare il fortilizio della propria comunicazione.
Questo
impegno è una fatica reale e si traduce in un lavoro mai quieto;
costante, invece, nello sforzo di revisione dei propri segni, di
controllo dei propri movimenti; per riuscire ad arrivare a una verifica
sempre più approfondita del proprio "metodo" di ricerca, di osservazione
del reale e di scrittura; che, se altrimenti eluso, potrebbe portare ad
esorbitare nell'accumulo del materiale di riferimento; ad ammassare le
pietre (delle parole) senza più il tempo, o il fiato, per selezionare.
Infatti
è tipica nel nostro tempo, per la scrittura poetica così come è
esercitata nei paraggi, qua da noi, la tendenza a transitare dalle gravi
inquietudini del mondo (che vengono registrate, catalogate come un
sottofondo scenografico per irrobustire una rappresentazione della
comunicazione) alle maglie dei sentimenti; disposti come rampicanti sui
muri, quindi senza scontrarsi con le difficoltà intermedie e anzi
rimuovendole o accantonandole come ormai non più pertinenti a un
discorso poetico aggiornato.
Nei testi proposti da Brunini, al
contrario, ogni gesto sembra rimettere in giuoco tutto; la propria
scrittura, il rapporto reale con la propria vita. Non è una scelta da poco.
Dalla relazione di Giorgio Celli alla
presentazione della raccolta Dalla parte
della notte, tenuta giovedì 3 aprile 2008 alla Melbookstore di via Rizzoli
18, Bologna
"Questa raccolta poetica si nutre di immagini dell’universo urbano,
in cui affiorano tensioni della cultura giovanile musicale, dissonanze e
cortocircuiti che scompongono i piani del reale secondo singolari
itinerari della percezione.
La ricerca di Brunini si evolve verso
tematiche sociali e di impegno civile. Gli avvenimenti della memoria
collettiva s’intrecciano con mondi di esclusi, di perdenti, e spesso
l’incontro con differenze di idiomi e lontananze culturali diventa
contaminazione linguistica.
Dalla parte della notte racconta la
contemporaneità, esplorandone il sommerso, l’inafferrabile
contraddittorietà, in un meditato sguardo che propone un presente
oscurato. Mescolando registri espressivi che variano dal
lirico al parlato, dalla cadenza ritmica di ballate ad effetti surreali,
l'autore offre una testimonianza poetica del disagio e dell’alienazione
quotidiana, giungendo a momenti di visionarietà che aprono inedite
prospettive."